Media House: le aziende cambiano mindset

La sfida per i brand si gioca oggi su disintermediazione e contenuti: intervista a Michele Bosco.

Giuliano Martino
5 min readFeb 13, 2021
Immagine Pexels | Kyle Loftus

“La trasformazione digitale ha cambiato le abitudini delle persone, abilitando nuovi comportamenti ed evolvendo i processi di comunicazione e informazione, che ormai convivono con opinione e narrazione”.

Basta leggere l’attacco in quarta di copertina per capire che “Media House. La trasformazione digitale dei modelli di business” (Dario Flaccovio Editore) è uno di quei libri che ti faranno girare una pagina dopo l’altra per scoprire cosa c’è scritto in quella successiva. Il significato di fare giornalismo oggi, la commistione con le realtà aziendali e la necessità dei brand di aprirsi a un nuovo modo di raccontarsi per generare nuove fonti di introiti sono le matrici fondamentali di un saggio che anticipa l’evoluzione del business model di domani.

Michele Bosco, Responsabile Editoriale Virtual14, mi ha raccontato di più del suo libro in questa intervista.

Michele, ti occupi di comunicazione digitale e sei specializzato in sport marketing. Come descriveresti quello che fai in poche righe?

Il mio percorso mette insieme esperienze molto diverse tra loro. Oggi mi occupo di contenuti. Quelli che produciamo per i nostri clienti e per noi stessi. Mi occupo della strategia, della pianificazione dei processi, del coordinamento delle risorse e della realizzazione operativa.

“Media House. La trasformazione digitale dei modelli di business” è il tuo ultimo libro. Come nasce e perché?

Nasce per unire i puntini del mio percorso. Scrivo di questi temi da anni, e volevo mettere insieme quanto fatto nel tempo. Ma, soprattutto, volevo mettere nero su bianco un concetto semplice, che si trascura troppo: la tecnologia e gli strumenti sono importanti, ma senza mindset, visione, organizzazione e contenuti servono a poco.

Nel libro racconti, grazie anche al contributo di molti professionisti, come la trasformazione digitale ha cambiato i modelli di business delle aziende e le abitudini delle persone. Al centro, la Media House. Ci racconti di più?

Quella che viviamo è un’epoca difficile, nella quale le persone hanno perso fiducia in ciò che leggono, vedono, ascoltano, pur passando sempre più tempo dentro i propri device, ormai assimilabili a luoghi nei quali perdono la cognizione del tempo. È lì che sempre più spesso si informano e si intrattengono. La Media House è la risposta alla complessità mediatica in cui operiamo, per semplificarla e catturare l’attenzione della gente. L’aspetto culturale e sociale è basilare, e credevo fosse importante sottolinearlo.

Cosa vuol dire creare contenuti?

Vuol dire avere una mente organizzata, capace di effettuare quel processo di selezione che è alla base del nostro lavoro, per spiegare — nei formati e attraverso i canali che si ritengono più opportuni, in funzione delle audience con le quali ci si vuole relazionare — ciò che qualsiasi organizzazione ha necessità di comunicare agli utenti, potenziali clienti, per intercettare domanda latente e consapevole.

Storytelling è una parola spesso abusata e associata al raccontare storie. È davvero così semplice la questione?

La narrazione ha un ruolo centrale, oggi, nella comunicazione. Il problema nasce quando le storie sostituiscono o nascondono i fatti. E, oggi, succede troppo spesso.

Immagine Pexels | Donald Tong

Sei fra i primi professionisti in Italia ad aver parlato di Brand Journalism. Cosa vuol dire fare giornalismo in un’azienda?

Nel Brand Journalism, la parola più importante è Brand, partendo dal quale va declinata una comunicazione che, attraverso le tecniche del giornalismo, si contamini col design e con i dati — in un mindset completamente nuovo — che la renda una strategia di marketing a tutti gli effetti. I giornalisti tradizionali, invece, si sono focalizzati sulla seconda parola, e, viste le difficoltà degli editori, hanno tentato e tentano di riposizionarsi, continuando a lavorare in modo obsoleto e senza visione. Portando fuori strada le nuove generazioni.

Nel libro parli della necessità di un cambio culturale, nelle aziende ma non solo. Da dove partire?

Dalla passione. Dalla formazione. La complessità, cui ho già accennato, è un tema centrale, e, quindi, la capacità di semplificare fa la differenza. Le aziende — partendo da una maniacale pianificazione dei processi — devono organizzarsi in modo ibrido. Per farlo, devono puntare su risorse ibride — formate nelle intersezioni — , che abbiano visione d’insieme, liberando il loro talento. Soprattutto a livello manageriale. Non esiste — non deve esistere — una separazione tra formazione umanistica e scientifica.

Un cambio culturale che ha due snodi fondamentali: qualità e competenze trasversali. Cosa vuol dire che il futuro è degli ibridi?

Vuol dire essere capaci di interpretare lo scenario complesso nel quale operiamo, vuol dire avere la sensibilità di comprendere ciò che può interessare o meno alle persone. Vuol dire pensare. Vuol dire sapere e saper fare, ma anche saper comunicare il sapere e il saper fare. Concetti, questi ultimi, che ho amato studiare nelle ricerche del Prof. Piero Dominici.

Elenchi molti casi di aziende virtuose, specialmente nel mondo calcistico. Ce ne è uno che prenderesti come modello?

Credo che l’industria dello sport, per caratteristiche, abbia evidenti vantaggi competitivi. Ma il lavoro di Eni, soprattutto dopo aver avuto l’opportunità di studiarlo nelle viscere, credo rappresenti il modello di riferimento. Di esempi virtuosi, comunque, ce ne sono vari, tra cui Red Bull e Inter, di sicuro. Ma io ho un debole per l’attività mediatica del Chelsea.

Per concludere: dicci un libro che ti ha ispirato e consiglieresti di leggere (a parte Media House!).

Ad essere sincero, non ho mai letto libri tecnici. Leggo più che altro romanzi e racconti. Proprio oggi, per esempio, ho finito Il tempo della clemenza di John Grisham. Stupendo. Chi lavora con le parole, comunque, farebbe bene a leggere On Writing di Stephen King. Se dovessi consigliare dei testi che siano funzionali ai temi che abbiamo trattato in questa chiacchierata, invece, cito ancora gli studi del Prof. Piero Dominici su complessità e formazione ibrida. Quando li ho scoperti, spinto dalla curiosità, non ho potuto fare a meno di approfondire. I suoi scritti aprono la mente, aiutano a capire cosa ci sta succedendo intorno e a sviluppare pensiero critico. Fondamentale in quest’epoca.

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Giuliano Martino
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